L’ufficio del futuro? È uguale a quello di oggi, solo con più errori digitali

Satira sull’uso dell’intelligenza artificiale in azienda: tecnologia inefficiente, capi digitali confusi e impiegati costretti a tradurre il caos.

LAVOROAIIMPIEGATI

Valerio Bernardo

10/28/20254 min leggere

a group of white robots sitting on top of laptops
a group of white robots sitting on top of laptops

C’è stato un tempo in cui le aziende sognavano la rivoluzione digitale come un Rinascimento d’ufficio. Si parlava di automazione, di intelligenza artificiale, di efficienza. I manager si riempivano la bocca di parole come “smart”, “data-driven” e “innovazione”. Poi qualcuno ha premuto “invio” e il futuro è arrivato davvero. Solo che, come spesso accade, non ha letto le istruzioni.

Oggi gli uffici del futuro esistono. Hanno scrivanie regolabili, badge digitali, e intelligenze artificiali che pianificano, monitorano e correggono. Peccato che non abbiano corretto la cosa più importante: le persone. L’unico elemento rimasto intatto è l’assurdità umana, quella che resiste a ogni aggiornamento software. In fondo, anche nel 4.0, la vera costante del lavoro resta la stessa di sempre: il caos organizzato.

La fede cieca nell’innovazione

L’azienda moderna crede nell’innovazione come una religione. Ha i suoi profeti (gli esperti di digital transformation), le sue messe domenicali (le call del lunedì mattina) e il suo Dio invisibile: l’AI. Non importa se nessuno sa come funzioni, né cosa stia davvero facendo: è lì, e questo basta per sentirsi al passo coi tempi.

L’intelligenza artificiale è diventata il nuovo “non abbiamo budget” dei capi. Ogni problema trova una giustificazione tecnologica: se qualcosa non funziona, è perché “il sistema deve aggiornarsi”. Se un progetto fallisce, è colpa del software. Se un reparto si blocca, si dà la colpa al cloud. È la versione moderna della vecchia frase “non dipende da me”: solo che ora ha una dashboard.

Le aziende adorano i grafici colorati e gli algoritmi che fanno rumore. Si sentono moderne anche solo dicendo “machine learning”, come se fosse una formula magica. Ma il risultato, in realtà, è un ibrido perfetto tra incompetenza analogica e presunzione digitale. Prima almeno l’errore aveva un volto, ora ha un codice sorgente.

Gli impiegati 2.0: la fauna del nuovo ufficio

In questo ecosistema digitale sono nati nuovi tipi di impiegati, aggiornamenti grotteschi dei vecchi archetipi.

C’è la Donna Barcode, che vive in un eterno conflitto con la tecnologia. Odia le piattaforme, i login multipli e le chat aziendali. Conserva le password in un’agenda di carta e stampa ogni e-mail “per sicurezza”. È convinta che l’intelligenza artificiale sia una minaccia, ma in fondo ha ragione: il suo lavoro lo farebbe un software, solo con meno pause caffè.

Poi c’è Il Gufo IT, il guardiano dell’oscurità digitale. È il tecnico informatico onnisciente, capace di dire “hai provato a riavviare?” con la stessa gravità di un medico che comunica una diagnosi terminale. Vive nel suo mondo di cavi e codici, parla una lingua incomprensibile e si nutre del terrore altrui. Quando compare in ufficio, tutti fingono di lavorare: un po’ per rispetto, un po’ per paura che disinstalli la stampante a distanza.

E naturalmente, non può mancare Il Capo 4.0, figura mitologica del nuovo millennio. È quello che parla di “ecosistemi digitali” senza sapere cos’è un file condiviso. Ama i webinar, odia gli allegati. Si definisce “visionario”, ma la sua visione si ferma a Excel. Per lui l’intelligenza artificiale è un’opportunità per “ottimizzare i processi”, frase che tradotta significa “trovare un modo elegante per far lavorare di più gli altri”.

L’intelligenza artificiale come alibi perfetto

Un tempo l’AI era una promessa: avrebbe semplificato la vita, ridotto gli errori, migliorato l’efficienza. Poi è arrivata negli uffici, e ha fatto l’unica cosa che le riesce benissimo: complicare tutto.

L’intelligenza artificiale aziendale è un’entità mistica: non si vede, ma si sente. Ti osserva, ti valuta, ti segnala se sei in ritardo di un minuto sulla pausa. Il suo compito non è aiutarti, ma misurarti. Il suo motto: “Non importa se lavori bene, basta che lo sappiamo”.

Nei dipartimenti moderni, ogni azione è tracciata. Gli algoritmi monitorano l’andamento dei progetti, i software contano i click, le piattaforme registrano i tempi di risposta. È la nuova forma di controllo dolce, la versione digitale del capo che spia da dietro il vetro. Solo che ora non serve più guardarti: bastano i dati.

Eppure, dietro l’apparente precisione di tutto questo, c’è l’ennesima forma di autoinganno aziendale. Gli errori non spariscono: si moltiplicano. Quando un algoritmo sbaglia, nessuno osa correggerlo: è “il sistema”, e il sistema non sbaglia mai. È la burocrazia perfetta: invisibile, incolpevole e sempre aggiornata alla versione successiva.

L’incompetenza automatizzata

Se il Principio di Peter spiegava come le persone vengano promosse fino al proprio livello di incompetenza, l’era digitale ha aggiunto un nuovo livello: quello automatizzato. Ora l’incompetenza non è più umana, ma scalabile.

Le decisioni aziendali vengono prese da software che nessuno capisce, alimentati da dati che nessuno verifica. Gli errori si spostano più velocemente, diventano sistemici, globali. L’AI è riuscita in ciò che nessun manager aveva mai osato: rendere permanente l’errore.

Nel libro si dice che “il futuro del lavoro non è distopico né utopico: è semplicemente mal configurato”. È questa la sintesi più onesta della modernità. Le aziende non si stanno evolvendo: stanno solo aggiornando i propri problemi. Ogni bug risolto genera un bug nuovo, più efficiente e meglio documentato.

L’ironia più grande è che, in mezzo a tutto questo, gli impiegati continuano a fare da ponte tra due mondi. Devono interpretare i comandi dell’AI e tradurli in linguaggio umano per il capo, poi tradurre le richieste del capo in linguaggio comprensibile per l’AI. Sono mediatori digitali, traduttori simultanei di incompetenza reciproca.

Il futuro che non si riavvia mai

Alla fine, l’ufficio del futuro non è poi così diverso da quello del passato. Solo più luminoso, più rumoroso e con più notifiche. L’intelligenza artificiale non ha eliminato l’errore: gli ha dato una connessione Wi-Fi. Ha automatizzato la burocrazia, digitalizzato l’assurdo e reso più veloce la confusione.

Ma c’è una forma di giustizia poetica in tutto questo. Perché, nonostante le piattaforme, gli algoritmi e le dashboard, le aziende continuano a dipendere da un solo elemento impossibile da programmare: l’ironia. È l’ultima risorsa naturale del mondo del lavoro, quella che nessuna macchina potrà mai replicare.

In fondo, il problema non è l’intelligenza artificiale, ma la stupidità naturale. Ed è una fortuna: se l’AI dovesse mai imparare a comportarsi come noi, anche lei finirebbe in riunione.

Il futuro, dunque, è già qui. Solo che deve ancora caricare. E come ogni software aziendale che si rispetti, si bloccherà proprio quando sembrava funzionare tutto.

L’ufficio del futuro? È uguale a quello di oggi, solo con più errori digitali

Tratto da temi e riflessioni di In principio era l’impiegato – Manuale cinico di sopravvivenza al lavoro di Valerio Bernardo.